Leone Rudich

AUTOBIOGRAFIA DI LEONE RUDICH:

“Vigevano, 1963

ho 58 anni, essendo nato nella lontana Jassi, Romania, vicino al confine russo, nel 1905. Sono venuto in Italia nel 1925 dopo aver fatto due anni di medicina all’università di Bucarest. Due movimentati anni di studio e di risse quasi quotidiane tra le organizzazioni studentesche democratiche e quelle antisemite, chiamate nazionaliste ed appoggiate dal governo.
Ho studiato a Pavia, dove mi sono laureato nel 1930, anno nel quale ho dato l’esame di stato, a Torino.
Subito sono venuto a Vigevano, dove l’Ospedale era rimasto senza entrambi gli assistenti nel reparto medico. Per molto tempo sono stato unico medico nel reparto medicina, pediatria, tubercolosario, asilo dei vecchi. Il primario, Prof. Sacchi – che gli anziani vigevanesi ricordano – mi è stato come un maestro severo e come un padre affettuoso, e lo ricordo con gratitudine.

Ho lasciato l’ospedale non potendo partecipare al concorso dei titolari, non essendo ancora cittadino italiano (lo divenni poco dopo).
Il contatto con i vigevanesi cominciò nelle corsie ospedaliere. Mi sono immedesimato con loro perché sentivo una grande affinità di carattere. A questa città, a questa gente, ho offerto la mia vita intera. Le sono andato incontro a cuore aperto, l’ho adottata, sono stato adottato, come in una famiglia – e ne sono orgoglioso di questa famiglia – che prima mi considerava come un figlio, un fratello e purtroppo oggi – dopo 34 anni di vita insieme – mi considera padre e nonno.

Leon-Rudich-giovaneFu il tempo in cui conobbi il buon Marazzani, medico e uomo ormai stanco, deluso e malato, ma di uno spirito sociale aperto e vivo; il vecchio Mastronardi, nella cui libreria modesta persi molto tempo, acquistai molti libri, ebbi molte discussioni con quel vecchio leone ribelle, che non si contentava di ruggire, ma sapeva mordere con certe sue stampe all’acido solforico.
Conobbi il caro Mussini, il caro Botto, spiriti aperti, cuori generosi, galantuomini a tutta prova, e tanti altri ancora, amici nel buon tempo e ancor più amici nel periodo buio. Parlo di loro, perché non sono più tra noi e sento il dovere di ricordarli con tenerezza e stima. Di tanti altri, che son vivi e la cui amicizia è sempre viva, non faccio il nome per rispettare la loro modestia.

Gli anni passarono, mi sposai, ebbi un figlio, poi una figlia nel cui lettino, appena nata (30 agosto 1938), dovetti depositare, come un bizzarro benvenuto a questa vita, il decreto razziale che faceva di lei una creatura inferiore, che privava suo padre della nazionalità italiana, che interdiceva l’esercizio della sua professione e rendeva lui, la moglie (italianissima, nipote del colonnello garibaldino Guastalla) ed i suoi figli “apolidi”, con minaccia di espulsione.
Chiusi il mio ambulatorio ormai inutile, alla cui porta affluivano ancora molte persone che non intendevano obbedire a certe leggi e che io non potevo più visitare. Piano piano, dovetti vendere molte delle cose di casa, il piano, l’organo, la radio, i quadri, i mobili e per ultimo, la mia vasta biblioteca. Mi ridussi in due stanze popolari.

Scoppiò la guerra, fummo dichiarati, io ed i miei, cittadini nemici, da internare o da espellere. Grazie a molti sforzi, riuscii a stornare dai miei familiari questa iattura ed io solo fui mandato al confino negli Abruzzi, a Nereto, in uno dei tanti campi di internamento. Poi, gli sforzi dei familiari consigliati da buoni amici riuscirono e togliermi di là e tornai a Vigevano.
Cercai lavoro ma non tutti si sentivano di darmi pane. La pietà era considerata pietismo. Mi arrischiai allora a far vita clandestina. Medico e clandestino, come se fossi un borsanerista. Un buon collega – un tisiologo che tutti conoscono – si prestava a firmare per me le ricette. Riuscivo a tenermi a galla, sempre sorvegliato. Sentivo attorno a me, però, la solidarietà degli umili, la fraternità dei perseguitati. Qualcuno veniva a pagare delle visite dimenticate ed onorari mai richiesti. Qualcuno, magari, inventava qualche visita immaginaria, vecchia tanto da non ricordarsi neanche più. Qualche regalo alimentare (eravamo in tempo di guerra!) era sempre benvenuto e permetteva ai miei figli di ignorare la fame. Fu allora che conobbi molti di quelli che poi diventarono parte attiva della Resistenza, e qualcuno poi perse la libertà, o la salute, o la vita. Le leggi razziali mi permettevano di esercitare la medicina solo presso ebrei, ma a Vigevano di ebrei c’era solo la mia famiglia ed io non avevo il permesso di viaggiare. Non sembra vero ora, ma allora ero considerato “pericoloso”.

Kalk e RudichFinalmente riuscii per quasi sei mesi ad andare a Milano dove facevo l’ambulatorio gratuito per correligionari profughi presso una mensa, dove potevo avere il pasto di mezzogiorno ed un piccolo sussidio da portare a casa. Poi cessò anche questo e a Vigevano, visto che non mi permettevano di fare l’impiegato, presi il libretto di lavoro da operaio e potei, presso amici, entrare come manovale prima e come operaio scelto poi. Non sapevo nulla della lavorazione del legno (tacchi, suole ortopediche, ecc). Mi ricordo la faccia stupita dell’impiegato dell’Ufficio di collocamento che nel compilare la mia pratica, si ebbe queste risposte alle necessarie domande:
-grado di studio conseguito? laurea in medicina e chirurgia con assistentato ospedaliero
-eventuali lingue conosciute? elenco di otto lingue, senza contare il vigevanese
-situazione militare? ex-ufficiale
Per mia fortuna, i miei principali mi diedero subito la paga di operaio specializzato, anche se i primi giorni non combinavo molto. Aiutai a trasportare travi e legname, poi mi misi alle macchine e presto potei lavorare a tutte le macchine. Cercavo di meritarmi la paga ed in breve ero l’operaio che aveva maggior numero di ore straordinarie. E quando uno dei soci della ditta dovette indossare d’urgenza la divisa di ufficiale, assunsi un posto di responsabilità diretta nel reparto produzione.

Assicurato così il cibo, potei continuare a fare visite clandestine presso amici e bisognosi, così facevo del bene a qualcuno ed anche a me, per salvare dal naufragio morale la mia personalità, la mia dignità, il patrimonio altamente Specializzato che è la mente ed il cuore di un medico.
Per tanti io non ero che un tale in tuta polverosa che andava in bicicletta al lavoro, tornando qualche volta con un sacco di legna e trucioli. Ma per molti ero un amico, umiliato, perseguitato dallo Stato e dalle sue nuove leggi, estranee al cuore e alla comprensione di quasi tutti gli italiani. Io ero solo, ma tutti mi conoscevano e sapevano che mi era stato fatto un gravissimo torto, e condannando chi me lo aveva fatto, un po’ condannavano il regime. Questo mi faceva pensare che valeva la pena di soffrire se riuscivo a far sì che tutta una città, già poco attaccata al regime, ne diventava ancora più ostile. Era il mio apporto alla lotta…

Passarono mesi ed anni. Venne il 25 luglio: un’esplosione di follia. Io passavo per la Piazza in bicicletta per andare al lavoro: fui strappato di sella e portato sulle spalle da gente anche sconosciuta che urlava, cantava, manifestava. Ma la guerra continua! – disse Badoglio – e le leggi restavano. Non c’era tempo per pensare a rimediare ad una infame offesa fatta a 50.000 persone. Cinquanta milioni erano in guerra, e la guerra continuava. Io continuavo il lavoro in fabbrica, ma data la scarsità dei medici (molti mobilitati, qualcuno in prigionia) ripresi, sempre illegalmente, a visitare, senza ambulatorio, soprattutto i poveri, i bisognosi – ed erano tanti, in quei tempi calamitosi, tempi di tessere, rinunce, bombardamenti e lutti. Con i tedeschi a Milano ed alle porte della città non c’era da stare allegri.
E venne anche l’8 settembre del 1943. Non avevo nessuna voglia di finire in sapone per lavare la faccia alle SS.
Presi la via dei boschi e per quasi due mesi rimase nelle lanche del Ticino, in compagnia di conigli, fagiani e dei numerosi inglesi ex prigionieri, fuggiti, che facevano gli uccelli di bosco anche loro. E mi toccò far da medico anche per loro, sparsi nelle cascine della vallata del Ticino, dove erano nascosti dai contadini e dai guardia-boschi che rischiavano ben grosso. In città la vita per mia moglie e per i miei figli diventava sempre più difficile e pericolosa. I tedeschi erano ormai nel Castello ed alle Tettoie. Un patriota, Leoni, era già stato fucilato. Bisognava cambiare residenza ai miei ed a me. Bisognava prendere in considerazione la Svizzera. Tornai in città, ospite clandestino di care e coraggiose amiche, e decidemmo il da farsi con mia moglie. Il 4 novembre, giorno del mio compleanno, decisi di regalarmi la libertà e la salvezza. In pieno giorno partii da Vigevano con mia moglie, sua madre ed i miei figli, pochi vestiti addosso, senza altro denaro se non quello da consegnare ai contrabbandieri-guide che vicino al confine, nel Luinese, ci aspettavano. Viaggiammo come dei profughi dai bombardamenti. Ormai l’alta Italia era bersaglio delle incursioni alleate. Di notte, poi, con buio e nebbia, passammo la montagna, con i bimbi che scivolavano sulle rocce di un torrente ma sapevano che non dovevano lamentarsi, i poveretti. Avevano solo 6 e 5 anni ma avevano già imparato a soffrire e tacere. Strisciando sotto un ponticello al quale era stata tolta la rete, entrammo in Svizzera. Era la libertà, la salvezza.

leone rudich foto tesseraLe guide, senza molti scrupoli, dopo averci fatto scivolare uno per uno sotto la rete, si allontanarono portandosi con loro i nostri zaini. Chissà che delusione avranno avuto non trovando che abiti usati. Purtroppo anche i miei documenti e la laurea rimasero in mano loro. Tentando poi un ricatto, con i miei documenti, un tristo figuro avvicinò i miei amici vigevanesi, ma fu smascherato e dovette consegnare i documenti, che ritrovai poi nel 1945 a Vigevano, quando ormai non ci pensavo più. I primi tempi in Svizzera: campi di raccolta, indagini di polizia militare, divisione delle famiglie, uomini da una parte, donne e bimbi altrove. Io che continuo a dire di essere un medico, ma senza documenti e con le mani callose, loro che non avevano troppa voglia di credermi. Troppi profughi aveva allora la Svizzera, da tutta l’Europa. Ognuno aveva una sua storia, sempre triste, a volte tragica, e troppi avevano “storie”. Per mesi passai da un campo all’altro finché il caso volle che il primario chirurgo dell’Ospedale di Mendrisio mi riconobbe nella sua foto di laurea fatta insieme nel 1930 a Pavia e testimoniò che ero medico laureato.

Le faccende di appianarono e la conoscenza di tante lingue fece di me un elemento decisamente atto a fare il dirigente medico in una clinica per rifugiati a Epalinges, sopra Losanna, a 800 metri di altezza in un sanatorio magnifico. Rifugiati di 14 Paesi diversi e lingue diverse.
Ripresi il contatto con la cultura scientifica occidentale del quale ero privo da anni, fui uno dei primi a leggere delle scoperte degli antibiotici, delle moderne vedute nelle malattie del sangue e delle arterie. Anche nei sanatori si dibatteva di problemi sociali e si discuteva spesso del domani. Conobbi allora anche qualche vigevanese che si era rifugiato in Svizzera quando la Repubblica di Domodossola dovette cedere.
Ci eravamo già iscritti, mia moglie ed io, per tornare in Italia con le brigate garibaldine che clandestinamente si rifornivano in Svizzera degli elementi che più mancavano, tra cui medici e infermiere.
Ma il 25 aprile cambiò tutto. Il 26 aprile vidi già a Losanna il documentario con gli impiccati di Piazzale Loreto. Non aspettammo più lo scioglimento ufficiale dei campi. Eravamo entrati in Svizzera senza il permesso degli Italiani, ce ne tornavamo in Italia senza il permesso degli Svizzeri, con l’ultimo treno che passò il Sempione prima che gli alleati, arrivati a Domodossola, ne bloccassero il transito. Viaggiammo in treno, a piedi, con traghetto ed autostop, ma l’indomani eravamo a Vigevano dove tutta una città ci fece festa e ci portarono in trionfo sulle auto per la gioia del ritorno. Molti credevano che fossimo morti.

rudich con moglieRitrovammo gli amici, nuove leggi abrogarono le vecchie, ridivenni cittadino italiano, riacquistai il diritto alla professione, ripresi il mio lavoro, vidi ritornare la mia clientela. Dovetti ricominciare da zero. Avevo quarant’anni, avevo perso otto anni della mia vita, subito umiliazioni, privazioni, molestie. Non ho ricevuto (né chiesto) nessun indennizzo, né dallo Stato, né dai Tedeschi, né dai privati. Mi risollevai da solo. Non avevo né tetto né letto, ho rifatto tutto, come le formiche che rifanno il formicaio distrutto dopo aver messo in salvo i piccoli. Io avevo salvato i miei e questo mi bastava.

Ripresi a fare il medico, con nuova esperienza ed un diverso concetto di come vivere, pensare, capire. Non bastava lavorare e fare del bene. Bisognava aiutare a costruire un mondo nuovo, migliore (eterna utopia) che non ripeta più gli errori del passato. Sono ormai passati 19 anni dalla mia iscrizione al PSI e mi illudo di aver fatto qualcosa per la città che mi ha mandato per tre volte al consiglio Comunale, dove sono stato a turno consigliere, assessore, vice-sindaco (eletto con 37 voti su 40) e poi Sindaco. Per cinque anni fui consigliere dell’Ente Provinciale Colonie e per altri cinque Consigliere del Consorzio Provinciale Antitubercolare.

Il Partito Socialista mi volle onorare presentandomi una volta per il Consiglio Provinciale ed una volta per la Camera dei Deputati, cariche che toccarono ad altre persone appartenenti a partiti più “nutriti”, senza contare che avevano meriti maggiori. Ho assistito a diverse scissioni ma sono e resto nenniano, per un socialismo senza fanatismi, per un mondo libero senza polizie politiche, di nessun genere. Nato in Europa orientale, diventato Italiano e vigevanese, sono e resto un europeo libero e socialista.”

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