Anna Botto

Storia di Anna Botto, maestra di Vigevano

Anna Botto nasce da Giuseppe e Giovanna Ortica martedì 31 dicembre 1895 ad Alessandria.

Anna Botto

Anna Botto

Nel suo curriculum didattico, ricco di quasi un trentennio d’ininterrotto insegnamento, prima in provincia di Alessandria, poi a Como, figurano ben diciott’anni di attività dedicata nella Provincia di Pavia, a Langosco, Robbio, Palestro e Vigevano. Quando Anna si trasferisce a Vigevano, abita in via del Littorio (oggi via del Popolo) 11, dove ha anche sede la locale casa del fascio, e svolge la sua missione di insegnante presso la scuola elementare Regina Margherita.
Dopo l’8 settembre 1943 prende contatti con esponenti antifascisti, e per questo viene per questo sorvegliata dagli agenti dell’UPI. Si impegna a dare umana e coraggiosa assistenza ai militari inglesi fuggiti dai campi di prigionia, rifugiatisi nelle campagne della Lomellina; porta loro il latte e gli altri generi alimentari di cui hanno bisogno, in attesa ch’essi possano intraprendere la via della libertà verso la Svizzera. Non solo, ma in quest’attesa molti ne ospita nella propria casa, a Vigevano, in Via del Popolo; uno di questi, ammalato, la cui gamba è minacciata dalla cancrena, viene da lei assistito e ogni giorno condotto per le necessarie cure da un medico di fiducia.

Giovedì 21 ottobre 1943 Anna Botto scrive l’epitaffio distribuito alle esequie in memoria di Giovanni Leoni, geometra comunale ucciso in rappresaglia per l’uccisione di un fascista:
Piombo tedesco
volle vittima di rappresaglia
Giovanni Leoni
Papà, ti gridano le figlie tue
sta’ a noi vicino
guidaci per mano
mitiga la nostra solitudine
Non abbia pace
chi ti consegnò al nemico.
La famiglia in pianto
gli amici straziati
Vigevano sconvolta
attendono l’ora inesorabile
della giustizia
che chiamerà il sacrificato
alla gloria dei forti

Epitaffio Leoni della Botto_m

Anna Botto viene arrestata dai fascisti, una prima volta, il primo maggio del 1944, “rea” aver portato “inquadrate” le proprie scolarette di quarta a due messe di suffragio, in ricordo dello studente Carlo Crespi, il giovane vigevanese fucilato dai tedeschi a Varallo, e le accompagna anche a casa Crespi in modo che “ogni bambina” riceva “la fotografia ricordo del giustiziato”, per di più spiegando loro che si tratta di “giovane fucilato dai fascisti”… Nell’interrogatorio che ne segue mantiene un contegno dignitoso, oltremodo coraggioso: bolla d’infamia i suoi carcerieri per i delitti cinicamente perpetrati al servizio dei nazisti.
Scarcerata il 10 maggio 1944, si fa più guardinga ma continua con rinnovato ardore la sua attività clandestina, portando a termine pericolose missioni affidatele dai partigiani e dai patrioti con cui rimane sempre in stretto contatto.
In occasione di una delle tante missioni, il 6 luglio 1944, ormai strettamente sorvegliata dai fascisti, alle carceri giudiziarie di via Romagnosi a Pavia dove, ben lungi dall’attribuirle concreta attività cospirativa, il capitano dell’UPI Enrico Rebolino pensa di servirsene per risalire qualche filo della trama resistenziale che anche a Vigevano deve essersi estesa. Durante la detenzione Anno Botto incontra la professoressa Bianca Ceva, legata a Parri e alla cospirazione milanese, che la citerà nelle sue memorie.
Questo il “Verbale di denuncia della nominata Botto Anna fu Giuseppe e di Ortica Giovanna, nata ad Alessandria il 31.12. 1895, residente a Vigevano, Via del Littorio n. 11, di professione insegnante, per propaganda sovversiva e favoreggiamento di prigionieri inglesi, in ISP, FT, c.2, f. Denunce al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, sf. Botto Anna, antifascista).
” E’ un comportamento che all’UPI deve esser giudicato semplicemente folle, né Rebolino è tanto sciocco da attribuire a quella romantica cinquantenne una seria attività cospirativa. Ma perché non tentar di risalire per suo tramite qualche filo della trama resistenziale che anche a Vigevano deve senz’altro essere stata stesa? Ingenua com’è, per di più provata dal carcere, quella compagna carina, intelligente e sensibile, in prigione per ragioni non molto diverse, con la quale già un poco si è confidata, potrebbe far giusto al caso”. Questo passo riportato da Guderzo si vuole rappresentare Anna Botto come una persona ingenua agli occhi della polizia fascista, ma il suo comportamento tenuto e il suo pensiero espresso nell’epitaffio a Giovanni Leoni dimostrano una persona retta e coraggiosa.

Comincia probabilmente a questo punto l’avventura spionistica di Laura Berio. Venerdì 7 luglio 1944 la GNR di Pavia ferma all’albergo del Teatro di Pavia due sospetti, uno dei quali vestito da ufficiale, e li porta al comando provinciale per accertamenti: sono Guido Dassori e Placido Milazzo. Alla richiesta di consegna delle armi i due aprono il fuoco e fuggono inseguiti per strada: nella sparatoria restano uccisi tre passanti. Mentre Dassori si dilegua, Milazzo finisce intrappolato in una casa: dopo un rapido interrogatorio il giovane catturato viene pubblicamente fucilato dinanzi a 300-400 persone contro il muro dell’Università in piazza Italia. In città l’episodio suscita impressione. La Brigata nera ferma la ventunenne ligure Laura Berio sorpresa a commentare che i passanti son stati uccisi non dal fuggitivo ma dai militi fascisti. Il capitano dell’UPI Enrico Rebolino la mette in carcere e poi la convince a passare al suo servizio. In carcere essa entra in confidenza con Anna Botto.
La Berio viene così inviata a Vigevano a casa Crespi per indurre papà Angelo a far qualcosa per Anna Botto: egli però resta diffidente. La Berio allora visita Anna in carcere e, con lo spettro della deportazione, la induce a scrivere un biglietto di supplica a papà Crespi che a questo punto fa il nome dell’avvocato vigevanese “della stessa fede” Eriberto Robutti e dell’“influente” amico viceprefetto Ernesto Gragnani. A casa Crespi Laura incontra anche il pavese di schietta convinzione antifascista Guglielmo Scapolla: un elenco di nomi a lui sequestrato guida i fascisti a due operai antifascisti pavesi, Carlo Bertoni della Snia e Pietro Gatti della Necchi. La Berio inoltre scopre l’antifascismo di una famiglia di coinquilini in Piazza Petrarca, i Pettenghi. Facendosi passare per partigiana, papà Pettenghi le confida ingenuamente che il figlio Ugo è in contatto coi partigiani della collina. La rete viene subito gettata: a inizio settembre finiscono tutti arrestati tranne Crespi e il figlio di Scapolla.
Deferita al Tribunale Speciale, Anna Botto viene processata a Milano e quindi torna al carcere di Pavia.
Il 31 agosto Anna Botto è trasferita al carcere di San Vittore, a Milano. Sabato 16 settembre viene trasferita al reparto tedesco con il n. 3160 di matricola.Anna Botto registro Italiano

Alla sera di mercoledì 20 settembre 1944 in camion la quarantottenne Anna viene trasportata dalle carceri milanesi di S. Vittore al campo di concentramento di Bolzano di via Resia con il quarantatreenne viceprefetto pavese, originario di Sperone, Ernesto Maschera Gragnani (poi deportato a Dachau) e la trentaduenne moglie pavese, originaria di Salonicco, Maria Luisa Canera di Salasco. (poi deportata a Ravensbrück), Mario Pettenghi (poi deportato a Dachau), il figlio Ugo Pettenghi (poi deportato a Dachau) e la moglie Rosa Gaiaschi (poi deportata a Ravensbrück).

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Il 7 ottobre 1944 viene deportata verso la Germania. Vengono restituiti i vestiti e i soldi ritirati. Nel caso di nuclei familiari si spera d’esser inviati a lavorare tenendo unite le famiglie invece, salendo sui vagoni-bestiame, gli uomini sono divisi dalle donne. A Innsbruck il convoglio si separa: gli uomini vengono diretti con il trasporto n° 90 a Dachau, le donne con il trasporto n° 91 a Ravensbrück.

Il viaggio dura cinque giorni; a volte distribuiscono pezzetti di pane: quando il treno si ferma, le lasciavano scendere a bere alle fontanelle delle stazioni. Invece i bisogni li fanno sul vagone: hanno fatto un buco nel vagone e a turno… All’arrivo a Ravensbrück, avvenuto la sera dell’11 ottobre 1944, alcune del vagone son già morte.
Anna Botto si ritrova insieme a due donne pavesi Maria Luisa Canera di Salasco e Rosa Gaiaschi Pettenghi, con cui aveva iniziato il percorso prima al Carcere di San Vittore a Milano e poi al campo di concentramento di Bolzano.
Il campo di sterminio di Ravensbrück s’affaccia su uno dei tre laghi, lo Schwedtsee, su cui sorge la “città d’acqua” di Fürstenberg: un luogo idilliaco dove sorgono le case della SS e dei civili impiegati nelle aziende dei dintorni.   Forse per questo le deportate sono positivamente impressionate dal contesto, cosa che le riempie di speranze. Maria Luisa Canera di Salasco ricorda: “Ci vennero incontro splendide aiuole simmetricamente disposte e ben coltivate, ricche di variopinti fiori, quasi un proscenio a linde e graziose villette dai balconi e dai davanzali straripanti di gerani e petunie. Quella visione tanto suggestiva quanto inaspettata, insieme alla scritta “Arbeit macht frei”, sovrastante il cancello del campo, mi arrecarono un senso di sollievo e mi suscitarono una certa serenità; mi fecero dimenticare per brevi istanti i giorni di terrore e brutalità trascorsi a Villa Triste a Pavia, a S. Tecla e S. Vittore a Milano. Alla vista dei fiori riandavo col pensiero a quelli ammirati a Bolzano quando – mentre le SS ci scortavano ai lavori di pulizia della caserma della “Wehrmacht” – ci si consolava tra compagne con le bellezze della natura. Allora, nella nostra ingenuità, ci illudevamo di poter scontare la nostra “pena” umanamente, a quel modo! Ma la fugace visione si dissipò rapidamente, impallidì e s’incrudì a mano a mano che ci addentravamo nei meandri del campo”.
Fin dall’arrivo infatti s’aprono le porte di un inferno. “

Ai fiori si succedettero gli orrori. Ci vennero incontro soltanto squallidi viali, nere baracche, sinistre torrette con mitragliatrici e poi le cupe ciminiere dei forni crematori. Mentre procedevamo nella marcia, ormai sfiduciate e depresse, scorgemmo in lontananza un carro trainato da buoi. Alla guida erano due “zebrate”. Una di queste imbracciava un grande tridente e inforcava – a quanto si poteva distinguere – fagotti di indumenti dai colori uguali alle sue vesti. Pensammo, lì per lì, fosse roba da macero o da lavare. Senonché, avvicinandosi sempre di più al carro, ci accorgemmo, tra lo sgomento e il terrore, che invece di mucchi di vestiario si trattava di cataste di scheletri di donne vestite, dagli arti penzolanti, alcuni già rigidi e altri che si contorcevano ancora negli spasimi della morte. Venimmo poi a sapere da veterane del campo che quello non era stato altro che un “normale carico” giornaliero di deportate morte e moribonde destinate alla saponificazione o ai forni crematori”. Senza poter parlare né osar il benché minimo gesto, passano in piedi l’intera notte all’aperto in attesa d’esser perquisite, registrate e private dei pochi oggetti personali.

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Al mattino di giovedì 12 ottobre 1944 Anna Botto, con le altre deportate appena giunte con il trasporto n.91 sono per prima cosa avviate in un “block”. Racconta Maria Luisa Canera: “Qui, spogliate di ogni nostro indumento, dovevamo sfilar nude davanti a un gruppo di sedicenti medici. Essi ci scrutarono dalla testa ai piedi, ci guardarono dentro alla bocca; poi frugarono ogni nostra più intima parte del corpo alla ricerca di oggetti d’oro o preziosi che avremmo potuto nascondere durante la spoliazione. Guai alle malcapitate colte in flagrante delitto d’occultazione di cotali oggetti: venti nerbate immediate e poi giorni e giorni di pena da scontare – “ad libitum” degli aguzzini – in una cantina allagata: lo “Straffblock”, il blocco di punizione”, Il procedimento più umiliante è la rasatura praticato a una percentuale di cinque o sei deportate su dieci. Poi c’è la doccia e l’assegnazione del “corredo”: un paio di zoccoli, una veste usata, rigata, una cuffia che deve celare totalmente i capelli a chi ancor li ha. A tutte viene attribuita nuova identità: per le politiche italiane il triangolo   rosso con la scritta IT e il numero progressivo d’ingresso al campo.
Come primo vitto ricevono una “miska”, una scodella con una broda rossa, rossa da far schifo, e bucce di patate e di barbabietole.

Rosa Gaiaschi finisce nella baracca 17, mentre Anna Botto e Maria Luisa Canera vanno in quella a fianco.
Ci si poteva incontrare la mattina nei gabinetti in comune dove ci si lavava, cinque o sei per oltre cento persone: bisogna star attente a far in fretta, non sempre si riesce a lavarsi e far ciò che si doveva. Durante la quarantena vengono svolti diversi lavori: spalano, tagliano legna nei boschi. Paura e orrore accompagnano queste donne in ogni momento.
Rosa Gaiaschi racconta: “Anna Botto era sfinita. Continuava a dire: “Io non ce la faccio, io non ce la faccio tutte le mattine ad andare all’appello; io a far tutta quella strada non ce la faccio”.
Nella speranza di riuscire a passarsela meglio, Anna Botto prova ad accettare la proposta di una nuova mansione. Rosa Gaiaschi racconta: “Siccome avevano chiesto chi voleva andare nel blocco delle invalide a lavorare a maglia, lei ha accettato subito, anche se io la sconsigliavo perché non c’era da aspettarsi buon cuore dai tedeschi”.

L’esito però non deve esser stato quello che Anna Botto auspicava. Rosa Gaiaschi spiega: “Dopo qualche giorno, una settimana neanche che era là, ci incontriamo al Wasser, ai gabinetti, e le dico: “Anna, come va?” Mi guarda con gli occhi fissi e poi si mette a cantare: “Ritorneremo a maggio con tante rose”. Era diventata matta.”
Anche Maria Luisa Canera di Salasco lo conferma raccontando che a fine ottobre 1944, “dopo soli venti giorni di quarantena la maestra Botto di Vigevano cominciò a dar manifesti segni di squilibrio mentale. All’appello del mattino non la vedemmo più fra noi. Venimmo a sapere da un “bracciale rosso”, una “Lager Polizei”, che di notte era stato effettuato un “Transport” con destinazione camera a gas-crematorio. Ed egual sorte toccò anche ad Antonia, la segretaria dell’avvocato Elmo di Milano, che sin dai primi giorni ebbe segni premonitori di alienazione”.
Nel novembre 1944 Anna Botto viene vista per l’ultima volta.
Rosa Gaiaschi racconta: “Quando ormai non ero più a Ravensbrück ho chiesto di lei, mi hanno detto che il blocco delle invalide, delle pazze, era stato distrutto col lanciafiamme”.
Alcuni superstiti hanno testimoniato che nell’aprile 1945, poco prima della liberazione, gruppi di SS incendiano coi lanciafiamme il blocco ove Anna si trova e che nessuno si salva.

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In un’aula delle scuole elementari di Piazza Vittorio Veneto, a Vigevano, una lapide a bassorilievo ricorda la nobile figura di educatrice, di donna, di patriota della maestra Anna Botto, raro esempio di bontà e carità cristiana. Una copia è anche posta nel sacrario partigiano all’interno del cimitero comunale.
Ad Anna Botto viene anche intitolata una via di Vigevano compresa tra le vie Gravellona e via Arona. In occasione del 25 aprile 1983 ad Anna viene anche intitolata la scuola elementare del rione S. Maria di Vigevano.

FONTI:
blog anpi voghera (clicca qui per visitare)
http://www.ravensbrueck.de/mgr/neu/dl/flyer/FBit.pdf
I CADUTI DELLA RESISTENZA NELLA PROVINCIA DI PAVIA, ed. Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, deputazione per la Provincia di Pavia, Pavia, 1969, pagg. 24-25)
FERRUCCIO BELLI (trascrizione da Ferruccio Belli, Storia di Anna Botto maestra di Vigevano, in Triangolo Rosso, anno XVIII, n° 3, luglio 1998, pag. 21).
(clicca qui per visitare)
FRANCESCO MARINONE (trascrizione da Francesco Marinone, Intitolata ad Anna Botto le nuove scuole di Pavia, in Triangolo Rosso, anno X, n° 5-6, maggio-giugno 1983, pag. 12). (clicca qui per visitare)
dalla testimonianza di MARIA LUISA CANERA della sezione ANED di Pavia (trascrizione da Maria Luisa Canera, Capelli bianchi a vent’anni, in Triangolo Rosso, anno VII, n° 3, marzo-aprile 1980, pag. 10).
Rosa Gaiaschi Pettenghi La Storia di Rosa (trascrizione da www.giuliopapi.it, scaricato 11-1-2016).
BIANCA CEVA, Tempo dei vivi, 1943-1945, Milano, Ceschina, 1954, pp. 35, 42)

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