Scioperanti di Cilavegna

La deportazione degli scioperanti di Cilavegna

 

Dopo diversi scioperi durante il periodo badogliano, il 2 marzo 1944 i 473 dipendenti del calzificio Giudice di Cilavegna (Ca.Gi.) aderiscono allo sciopero generale proclamato dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia.

Calzifico Giudice

Il giorno dopo i nazisti arrivano in paese e arrestano i membri della ex-commissione interna:
Clotilde Giannini Nata a Tornaco (NO) il 24 dicembre 1903, residente a Gravellona, è deportata prima a Mauthausen, poi ad Auschwitz, infine a Bergen Belsen, dove muore il 24 aprile, 9 giorni dopo la liberazione del campo, a causa di ciò che aveva subito durante la prigionia.
Camilla Campana, nata a Clusone (BG) il 28 novembre1916, segue lo stesso itinerario della Giannini fino ad Auschwitz. Poi è deportata a Ravensbrück e quindi a Buchenwald. È liberata dai russi durante la marcia di eliminazione.
Sempre a causa dello sciopero viene deportata Luigina Cirini, nata a Livorno il 5 novembre 1920, che segue l’itinerario della Giannini e della Campana fino ad Auschwitz, poi è trasferita a Flossenbürg dove è liberata.
Giovanni Maccaferri, nato a Cilavegna l’8 dicembre del 1923, recluso al castello di Vigevano, prima e successivamente a Milano, trasferito al campo di concentramento di Fossoli, da dove viene deportato al campo di Mauthausen, dove muore ai primi di (8) maggio del 1945, poco prima della liberazione del lager.
Anche il comunista Pietro Omodeo Zorini, detto Lenin di professione sarto, nato il 31 gennaio 1895, promotore del gruppo clandestino comunista di Cilavegna, che pur non essendo dipendente dal calzificio, viene arrestato con l’accusa di essere l’ispiratore politico dello sciopero. Dopo l’arresto, insieme a Giovanni Maccaferri, inizia il suo percorso di deportazione, che si fermerà a Fossoli, dove sarà rilasciato, per motivi di saluti, dopo 5 mesi di sofferenza.
Altra vittima della repressione fascista fu Giovanni Casinghino Giovanni, operaio, appartenente al gruppo comunista clandestino di Cilavegna, nato il 24 gennaio 1910 a Cilavegna. Secondo Mario Bonzanini, sarebbe stato catturato a causa di una delazione e nella sua casa sarebbe stato trovato molto materiale di propaganda. Secondo Venegoni sarebbe stato arrestato a Cilavegna il 3 ottobre ’44 e portato da Milano al campo di Bolzano, dove gli viene assegnato il n. di matricola 5204 H, il 17 ottobre, sopravvissuto.

deportati cilavegna1

Di seguito si riportano lettere e testimonianze dei protagonisti, che ci trasmettono lo stato d’animo di quei momenti o l’orrore per quanto subito dopo l’arresto. Le lettere di Clotilde Giannini al marito Alfredo descrivono i momenti precedenti alla deportazione verso la Germania. Le testimonianze di Pietro Omodeo Zorini raccontano delle sue traversie dal momento dell’arresto avvenuto il 3 marzo 1944 fino al trasferimento a Fossoli ed al successivo rilascio a piede libero. Ed infine il racconto di Camilla Campana che descrive l’”Inferno di Auschwitz”.

Le lettere di Clotilde Giannini al marito Alfredo (tratte da Dizionario Biografico della Deportazione Pavese):

Al marito Alfredo. Carceri di Bergamo, 4 aprile 1944
Caro Alfredo,
purtroppo il triste giorno e giunto, domani mattina 5 si parte per la Germania. Alla triste sorte devo purtroppo rasegnarmi, tu pure fa altrettanto Alfredo tieni d’acconto la casa e il nostro caro figlio. E tu cara mamma va a casa mia come se fosse tua, ti raccomando mio figlio e quando viene a casa parlagli di sua mamma e digli che mi ricorda addio Alfredo oppure arrivederci un giorno se avrò la fortuna di ritornare.
A tutti chi chiede di mè i miei saluti tutti i parenti papà e mamma sorella frattelo
tua Clotilde
ciau baci
bacioni a figlio
ciau

Al marito Alfredo. Verona, 4 maggio 1944
Caro Alfredo,
Ore 5. da Verona ti giungano i miei sinceri saluti e baci tua Clotilde sono inpartenza per la Germania Alfredo inquanto per il viaggio mi trovo bene speriamo che tutto finisce addio oppure arrivederci
Salutami la mamma e papà frattello e sorella i parenti e amici e tutti quelli che domandano di mè
Alfredo salutami il figlio e tienilo d’acconto
bacioni
Saluti la tapa e la Iside ciau
arrivederci ciau
ciau

La Testimonianza di Pietro Omodeo Zorini

Vale la pena di ricapitolare brevemente anche la vicenda di Pietro Omodeo Zorini, benché terminata al campo di transito italiano di Fossoli, così come egli stesso la descrive in una testimonianza del dopoguerra.
Strettamente sorvegliato dal maresciallo dei carabinieri di Gravellona, che cerca di intimidirlo e lo costringe più volte a presentarsi in caserma, nonostante il suo stato di salute (ha gravi problemi di circolazione), viene arrestato: “Nel pomeriggio del 3 marzo 1944 – ricorda – si presentarono una quindicina di tedeschi delle SS a casa mia accompagnati dal segretario comunale, dal messo comunale e dall’interprete”.
Assieme agli operai arrestati viene portato al castello di Vigevano, poi all’Hotel Regina di Milano e a San Vittore. Quindi al campo di transito di Fossoli presso Carpi (MO) dove, dopo diverse traversie, l’aiuto di un medico ebreo e una grossa operazione, viene rilasciato:
Io e il Maccaferri ci portarono al V raggio in cella, dopo tre giorni di cella partimmo in 150 detenuti politici a Carpi (Modena) cioè al campo di concentramento di Fossoli. Giunti a Fossoli alle due di notte ci rinchiusero in una baracca senza coperte e senza paglia e senza nessun conforto. Dopo tre giorni ci fu la prima spedizione per Mauthausen, partirono in 250 cioè 150 di Milano e 100 di Torino rientrati a Fossoli il giorno prima, io dato che avevo una fistola al piede non feci parte della spedizione per Mauthausen, rimasi in baracca solo, i tedeschi che comandavano il campo si erano disinteressati di me e non mi davano da mangiare e nemmeno si decidevano di interrogarmi. Allora mi rivolsi a un medico ebreo, chiedendogli a chi dovevo rivolgermi per farmi curare il piede. Il medico ebreo, che non ho più presente il nome, mi rassicurò che si sarebbe interessato di me e che avrebbe fatto di tutto per farmi portare all’Ospedale Civile di Carpi causa che il piede era in via di cancrena, dopo molte insistenze presso il comandante del campo potei rientrare nell’Ospedale Civile di Carpi dove subii una grande operazione, morbo di Burger, ciò che ho sofferto è indescrivibile, per una quindicina di giorni stetti fra la vita e la morte, dopo una ventina di giorni arrivò un ordine del Comando dell’SS di Verona che tutti gli ammalati dovevano rientrare al campo anche se erano moribondi. Rientrati al campo mi portarono in una baracca adibita a infermeria, l’infermeria consisteva in una branda con un materasso di paglia e un lenzuolo più nero di un vestito da spazzacamino e una coperta militare; chi ci prestava le cure erano tutti i medici internati a Fossoli, ben poca cosa era la cura, non per scarsa volontà dei medici, ma bensì per mancanza di medicinali e di medicazioni, causa che il comando tedesco non forniva sufficienti medicinali. Dopo 5 mesi di una vita da martire m’hanno messo a piede libero”.
Anche coloro che non furono deportati oltre il Brennero e restarono nei lager italiani, rischiarono la morte. Proprio a Fossoli una settantina di internati politici furono fucilati. Tra di loro antifascisti, scioperanti, partigiani.
Ed infine, tratto da Resistemmo a lungo. ANED prov. PV, il racconto

Nell’inferno di Auschwitzdi Camilla Campana

Il primo “transport” di deportate che giunse a Mauthausen fu certamente il nostro. Sino allora, fine marzo 1944, quel campo era destinato esclusivamente alla deportazione di uomini.
Fu così che il nostro arrivo colse di sorpresa e mise in crisi la stessa “infallibile” organizzazione tedesca.
Venimmo sistemate colà nel peggiore dei modi, in una tetra costruzione in muratura, alla periferia del campo, nei cui sotterranei erano ubicate le segrete dei deportati.
Ci vennero assegnate delle piccole e umide celle, nelle quali, ammucchiate come masserizie, trascorremmo in completo isolamento il periodo di quarantena.
Sebbene le traversie che dovemmo superare a Mauthausen fossero state uno stillicidio di tormenti e sevizie, esse non potevano in alcun modo reggere il confronto con quelle ben più ossessive vissute e sofferte nell’inferno di Auschwitz; quel maledetto campo al quale venimmo destinate a quarantena ultimata.
Fummo condotte ad Auschwitz verso la fine del mese di aprile del 1944. Mai avremmo immaginato gli orrori di cui saremmo state testimoni nei quattro mesi della nostra permanenza in quel luogo. Le mostruosità di cui fummo spettatrici ci lasciarono impietrite; esse non erano più circoscritte a singoli episodi di brutalità, vissuti e sperimentati anche a Mauthausen, ma superavano ogni concezione della più nefasta ferocia nazista.
Già l’enorme, sconfinata vastità di quel campo, dove aleggiava una pesante atmosfera di morte, incuteva smarrimento e incontenibile terrore. Venimmo subito investite da zaffate di aria irrespirabile, che sapeva di carne umana bruciata; quel lezzo nauseabondo, che penetrava nelle nostre narici, proveniva dai forni crematori in dotazione al campo. Come se tutto ciò non fosse bastato a introdurci in quell’orrore, scorgemmo davanti ai “block” mucchi di cadaveri di deportate esposti all’aperto, come fosse spazzatura, in attesa di essere portati alla cremazione.
Vivevamo in un continuo incubo. Giorno e notte si udiva il lacerante urlo delle sirene che preannunciavano l’entrata nel campo di lunghi convogli ferroviari carichi di ebrei. A quel segnale il campo veniva sgombrato per dare inizio alle operazioni di sbarco. A esse venivano adibite centinaia di SS del presidio, al comando di un’ufficialessa, assistite da “Kapo” tedesche e di altre nazionalità, tutte contraddistinte dal triangolo nero delle criminali o da quello verde delle delinquenti.
I “block” venivano sprangati e anche oscurati, se i convogli arrivavano di notte. Ma tanto di notte, alla luce dei riflettori, che di giorno, di nascosto, si poteva osservare quanto accadeva in quei frangenti. C’era chi spiava e osservava, poi riportava.
Ecco quanto avveniva in continuazione.
Gli ebrei venivano selezionati immediatamente dopo lo sbarco dai convogli ferroviari. I bambini, strappati alle madri, tra urla e pianti, venivano avviati in “block” particolari. Tra gli uomini venivano scelti gli elementi abili al lavoro, mentre gli inabili e i vecchi venivano intruppati a parte. Poi, nel volgere di poche ore, donne, bambini e uomini venivano condotti nella camera a gas e sterminati in massa. Ma anche gli uomini validi al lavoro rimanevano vivi solo per poco tempo; essi non tardavano a subire la medesima sorte in successivi turni di eliminazione, al sopraggiungere, cioè, di altri convogli. I nuovi arrivati sostituivano nel lavoro i gassificati e così di seguito, senza soluzione di continuità.
Eravamo esposte quotidianamente alle malvagità delle SS, SS donne, autentiche jene, pur tuttavia ci ritenevamo delle privilegiate in rapporto ai massacri che così spietatamente si perpetravano nel campo. Era un vivere bestiale. Dormivamo in “castelli” in muratura, costruiti a tre piani, simili a loculi cimiteriali, a cui mancavano soltanto le pareti esterne. Lì giacevamo in cinque e a volte anche in otto. Stipate come sardine, dovevamo adagiarci sui fianchi perché i “loculi” potessero contenerci tutte. Senza cucchiaio, mangiavamo in quattro da una sola bacinella, succhiando la brodaglia del pasto dall’orlo del recipiente, servendoci delle mani per raccogliere dal fondo la parte più spessa di quell’indefinibile cibo.
All’appello del mattino cercavamo di farci assegnare ai lavori meno faticosi, nella speranza di poter sopravvivere più a lungo. Due erano i principali lavori a cui il nostro “block” era destinato: la demolizione a colpi di piccone delle rovine prodotte dai bombardamenti aerei, con relativo trasporto delle macerie nelle voragini prodotte dalle bombe, e il trasporto con barelle dei cadaveri abbandonati davanti ai “Block”.
Si giungeva persino a litigare tra compagne per avere il “privilegio” di trasportare i cadaveri; lavoro questo che in effetti era assai meno pesante dell’altro.
Questo lavoro “leggero” consisteva nel prelevare per dodici ore al giorno i cadaveri giacenti davanti ai “block”, di caricarli, in due di noi, su barelle e di trasportarli, tre o quattro alla volta al “magazzino di raccolta”. Si trattava di un enorme capannone dove squadre di deportate erano occupate nelle operazioni di stivaggio delle salme, che veniva effettuato testa piedi, in voluminose cataste equidistanti per consentire le manovre dei camion, su cui venivano caricate e poi avviate ai forni crematori.
Un giorno mi capitò di visitare con delle ebree la famigerata camera a gas. Era uno stanzone grandioso, dal soffitto percorso da grosse tubazioni con tante diramazioni terminanti a imbuto: le bocche da cui fluiva il gas venefico che aveva già fulminato milioni di ebrei!
Quell’immenso, tragico locale era a volte adibito anche a camera di disinfestazione degli indumenti dei deportati per eliminarne i pidocchi; i quali, peraltro, non si arrendevano neanche a quel trattamento e continuavano anche dopo la disinfestazione a succhiarci il poco sangue che avevamo in corpo.
Da Auschwitz venimmo trasferite a Ravensbrück e poi a Buchenwald, da dove fummo inviate al “kommando” di Leipzig.
Da quest’ultimo campo, iniziammo la marcia di eliminazione. Anche nei nostri confronti si attuava una vera carneficina. Molte compagne, sfinite dalla fatica e dalla fame, rimanevano ai bordi della strada, impossibilitate a proseguire la marcia. Era la loro fine: venivano barbaramente uccise a raffiche di mitra.
In quella marcia della morte cercavo di vincere il mio stato di prostrazione con la forza della disperazione. Tenevo appeso al braccio destro un sacchetto di patate che ero riuscita ad “organizzare” (sta per arraffare, nel linguaggio dei deportati) e con il medesimo braccio trascinavo una compagna di Milano di nome Mira. Con l’altro braccio sostenevo una compagna di Lecco, di nome Agnese.
La Mira faceva una fatica enorme a reggersi in piedi e io ne facevo altrettanta per tenermela attaccata al braccio. Se l’avessi abbandonata sarebbe stata senz’altro assassinata dalle SS di scorta. Quando anch’io mi sentivo ormai venir meno le forze giunsero provvidenzialmente in nostro soccorso i carri armati dell’Armata Rossa e ci salvarono la vita.

Bibliografia:
Mario Bonzanini, “Cilavegna. La laica via crucis della Liberazione” in «25 aprile 1945/1995», Vigevano, 1995, pp. 59-60.
Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano, Milano, Mimesis, 20054, p. 120.
ANED -Maria Antonietta Arrigoni – Marco Savini a cura di “Resistemmo a lungo” Testimonianze della deportazione pavese, Pavia, Guardamagna gennaio 2013 – pagine 72
Maria Antonietta Arrigoni e Marco Savini “Dizionario Biografico della Deportazione Pavese”. Unicopli, Milano 2005. P. 246.
Annali di Storia Pavese “I deportati Pavesi nei Lager nazisti” Pavia 1991, vol.1°.

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